martedì 1 giugno 2010

Silenzio, ricordiamo i nostri martiri innocenti

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1933-1945: Le imperdonabili colpe del nazifascismo nello sterminio delle persone disabili. Per non dimenticare una delle più grandi vergogne dell’umanità
a cura di Virginia Reggi

Cimitero di HadamarIl 27 gennaio di ogni anno si celebra la giornata della memoria dell’olocausto ebraico. Quest’anno si è finalmente proposto l’istituzione di un’altra, doverosa, giornata dedicata alla memoria dei morti delle foibe istriane e dalmate.
Ma nella storia recente dell’umanità c’è stato anche un altro orrore che ha lasciato ben pochi testimoni e, forse proprio per questo, dimenticato.
Si tratta dello sterminio delle persone con disabilità, violate, violentate e massacrate dai criminali nazisti prima ancora di venire incenerite e fatte sparire per sempre nel nulla.
Il “Notiziario” vuole ridare dignità e voce a quei poveri martiri innocenti, dimenticati da tutti, comprese le numerose Associazioni che si occupano di disabilità, pubblicando una sintesi della puntuale e preziosa ricerca compiuta dal giornalista Michele Pacciano per conto del Segretariato Sociale della RAI. 

                                                    MARZO 2004
                                      IL MASSACRO DEI BAMBINI DISABILI

I) L’apparato organizzativo
Nel 1938 ci fu in Germania il caso di un neonato di una famiglia tedesca di nome Knauer, affetto da gravi handicaps, per il quale fu autorizzata l’eutanasia.
Dopo questa uccisione, Hitler istituì nel 1939 un programma di soppressione dei bambini con difetti fisici o mentali.
La responsabilità dell’impresa fu affidata alla Cancelleria privata di Hitler (la famigerata KdF). Fin dall’inizio, la pianificazione e l’attuazione dell’eutanasia infantile furono classificate “top secret” e la KdF doveva restare invisibile.
Perciò fu creata una organizzazione fittizia di copertura, un fantomatico “Comitato per la registrazione scientifica di gravi disturbi ereditari” (chiamato per brevità “Comitato del Reich”) col presunto ruolo di istituto di ricerca scientifica. In realtà esisteva solo sulla carta e il suo indirizzo era una casella postale.
Il 18 agosto 1939 uscì un Decreto Ministeriale sull’obbligo di dichiarazione dei neonati deformi. Esso recava il timbro “strettamente confidenziale” e non fu mai pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale. Si ordinava a ostetrici e a medici di dichiarare tutti i neonati e i bambini sotto ai 3 anni affetti da specifiche condizioni mediche:
1) idiotismo e mongolismo;
2) microcefalia;
3) idrocefalia;
4) ogni deformità fisica;
5) paralisi, incluso il morbo di Little (displegìa spastica).
Al Decreto fu allegato il modulo di dichiarazione formulato in modo da sembrare un’indagine scientifica per usi statistici.
Per l’uccisione dei bambini il Comitato del Reich creò reparti di eutanasia infantile presso i grossi ospedali statali, i cosiddetti “reparti per l’assistenza esperta dei bambini”. Il Ministero chiese che il sistema assistenziale coprisse i costi dei ricoveri assicurando che sarebbe stato denaro ben speso perché i risparmi futuri avrebbero abbondantemente compensato il costo iniziale.

II) Il percorso
L’iter aveva inizio con la compilazione del modulo da parte di un medico o dell’ostetrica, modulo che veniva trasmesso alle autorità sanitarie locali e da queste al Comitato del Reich, attraverso la casella postale. Qui gli esperti prendevano la decisione: un semplice segno + indicava l’inclusione nel programma dell’eutanasia e quindi la morte, un segno - l’esclusione e quindi la salvezza.
Seguiva il trasferimento nel reparto di eutanasia dove, dopo un breve periodo di osservazione, il medico redigeva la diagnosi, quasi sempre sfavorevole (anche se spesso in contraddizione con quella del medico di famiglia che conosceva molto meglio il bambino). D’altra parte, i medici del reparto di eutanasia erano nella maggioranza senza specializzazione e inoltre erano giovani e desiderosi di far carriera e il Comitato del Reich ricompensava con un premio in denaro il personale medico dei reparti di eutanasia infantile più “produttivi”.
In base a queste diagnosi sfavorevoli i periti del Comitato davano l’ordine effettivo di sopprimere il bambino. Le invalidità che determinavano l’inclusione nel programma di eutanasia erano quelle che si riteneva avrebbero impedito al bambino di diventare un adulto autonomo nonostante, anche a quell’epoca, molti medici sostenessero che è impossibile giungere ad una prognosi definitiva circa le possibilità future basandosi sulla diagnosi dei primi anni di vita.
Le eutanasie svolsero anche la macabra funzione di laboratorio per il “progresso della scienza”. Numerosi istituti scientifici trassero profitto dalle uccisioni; infatti gruppi selezionati di piccoli disabili furono sottoposti a studi medici prima e dopo l’uccisione. Nelle autopsie vennero asportati gli organi, specie il cervello, per supposti scopi scientifici.

III) Le pressioni sui genitori.
Il trasferimento dei bambini nei reparti di eutanasia non incontrava alcun ostacolo se i piccoli erano istituzionalizzati, ma la maggior parte dei neonati e dei piccolissimi sotto i tre anni erano in famiglia, oppure ricoverati in piccoli ospedali. Perciò bisognava convincere i genitori, compito che fu affidato, di solito, agli ufficiali sanitari locali.
Generalmente i genitori non si opponevano perché le autorità li ingannavano dicendo che, in quei reparti, i loro figli avrebbero potuto avere le cure necessarie. Alcuni genitori però si opposero, perché insospettiti.
Così, il 20 settembre 1941 il Ministero emanò una circolare indirizzata alle amministrazioni degli Stati federali e agli uffici sanitari pubblici in cui spiegava che l’istituzionalizzazione dei bambini disabili avrebbe liberato la famiglia in modo da consentire ai genitori di prendersi meglio cura dei fratelli sani. Inoltre, si accusavano familiari e medici di famiglia di non saper valutare la gravità delle minorazioni, in particolare nel caso dei bambini “mongoloidi”, la cui disposizione alla musica veniva erroneamente interpretata come motivo di ottimismo. Questa specificazione per i bimbi down era dovuta al fatto che inizialmente fu uno dei periti che formavano il Comitato del Reich ad opporsi alla loro inclusione nel programma di eutanasia sostenendo che “i mongoloidi possiedono un gusto particolare per la musica e un amore alla vita”. Inoltre la circolare indicava anche la possibilità di ricorrere alla forza in caso di persistente rifiuto da parte dei genitori alla consegna dei figli. Infine, subdolamente, la circolare evidenziava che il rifiuto ad istituzionalizzare il figlio disabile sarebbe stato dannoso per i figli sani e per l’intera famiglia. Pertanto le autorità sanitarie “avrebbero potuto indagare per stabilire se tale rifiuto costituisse una violazione al diritto di custodia”. A questa palese minaccia di togliere loro il diritto di custodia, solitamente i genitori cedevano.
Sulle madri sole, perché il marito era in guerra, la pressione fu più forte. Il Comitato del Reich ricorse agli uffici locali del lavoro per assegnare quelle che si rifiutavano di separarsi dal figlio alla manodopera temporanea (ovviamente questa misura coercitiva era efficace solo con madri appartenenti alla classe lavoratrice).
Tattiche analoghe furono impiegate anche contro i genitori che tentavano di riprendersi i loro figli dai reparti di eutanasia. Nonostante petizioni, denunce e il ricorso a sotterfugi di ogni genere, solo pochissimi riuscirono a riavere i propri figli.

IV) I metodi di uccisione.
La scelta dei metodi di uccisione veniva lasciata ai medici dei reparti infantili di eutanasia. Uno era la morte per inedia. “Queste creature sono solo un onere per il nostro corpo sanitario nazionale. Noi non uccidiamo con veleno o con metodi che permetterebbero alla stampa straniera di allestire una campagna diffamatoria. Il nostro metodo è molto più semplice e naturale”.
Questa fu la cinica dichiarazione del direttore di uno dei reparti di eutanasia il quale, in seguito, si difese in tribunale precisando che ai bambini non era stato tolto il cibo all’improvviso, ma erano state ridotte lentamente le razioni.
Questo non fu però il metodo più generalizzato.
Il preferito fu l’uso di farmaci quali la morfina, il luminal, il veronal e il bromuro; farmaci usati regolarmente in queste strutture, che divenivano letali solo quando si aumentava la dose. Si evitava così, molto prudentemente, il ricorso a veleni estranei. Non solo: l’overdose di barbiturici non provocava la morte immediata, ma dava delle complicazioni mediche, in particolare la polmonite, che in pochi giorni provocava il decesso. A quel punto i medici constatavano la “morte naturale”.
L’uccisione dei bambini fu il primo atto del programma di sterminio dei disabili per eutanasia.
Quando, nell’agosto del 1941, Hitler, su pressione dell’opinione pubblica e delle Chiese cattolica e protestante, ordinò l’interruzione della prima fase dell’eutanasia degli adulti disabili, i bambini non rientrarono in quest’ordine e le uccisioni infantili continuarono fino alla fine della guerra estendendosi dai primi tre anni di vita fino all’adolescenza. Inoltre, si estese il ventaglio delle disabilità comprendendo anche invalidità lievi, problemi comportamentali e difficoltà di apprendimento.
Poiché molti documenti sono andati distrutti, è impossibile calcolare il numero dei bambini uccisi nei reparti di eutanasia. La stima più accreditata parla di almeno 5mila bambini disabili assassinati.
Ma in realtà sono stati molti, molti di più.



MAGGIO 2004
LO STERMINIO DEI DISABILI ADULTI

Lo scenario culturale
Le teorie eugenetiche alla base della politica nazista di epurazione e difesa della razza non erano nuove e neppure appartenenti alla sola filosofia tedesca.
Esse affondavano le radici nelle teorie dell’ereditarietà e dell’evoluzione della specie che dominarono la scena filosofico-scientifica di tutto il 1800 e della prima parte del 1900 con importanti contributi dalla scuola americana. Il nazismo si rifece anche alle teorie dell’antropologo e psichiatra italiano Cesare Lombroso, fondatore dell’antropologia criminale, a cui si deve una prima classificazione degli esseri “inferiori”.
Lo sterminio dei disabili adulti fu preceduto dalla loro sterilizzazione che iniziò già nel 1933 quando, pochi mesi dopo l’ascesa al potere, Hitler promulgò la famosa legge sulla sterilizzazione che entrò in vigore nel Reich il 25 luglio dello stesso anno.
Nel 1939, con l’inizio della guerra, Hitler dette l’avvio anche all’operazione di eutanasia dei disabili adulti perché, come ebbe a dire nella riunione preparatoria, “quelle dei disabili erano vite indegne d’essere vissute”.
E’ importante sapere che comunque, alla base del progetto, vi era un criterio di ordine economico e utilitaristico. Infatti, secondo accurati calcoli di uno studio statistico del Reich, l’eutanasia dei disabili adulti, calcolata su base decennale, avrebbe fatto risparmiare all’erario tedesco 885.439.980 marchi.
Il progetto “action T4”: la soppressione degli adulti disabili.
Il 15 ottobre 1939 la Cancelleria privata di Hitler (la KdF che già si occupava dell’eutanasia dei bambini) emanò un ordine di servizio, a firma autografa del Führer, che imponeva a tutti gli istituti e case di cura di fornire gli elenchi dettagliati dei degenti definiti incurabili o terminali, documento che rimase sempre circondato dalla più assoluta segretezza.
La KdF e tutti gli uffici medici che si occupavano del progetto furono subito trasferiti in una grande villa confiscata ad ebrei che si trovava al n. 4 di Tiergartenstrasse a Berlino. Da qui il nome in codice di Progetto T4.
Dopo aver ben predisposto la macchina organizzativa, si trattò di scegliere il tipo di uccisione e si optò per il gas. Il primo centro di assassinio di massa fu preparato tra il dicembre 1939 e il gennaio 1940 presso un ex istituto carcerario; era un’apposita stanza che poteva contenere 70 adulti disabili.
A questo primo centro se ne aggiunsero presto altri. Per ragioni di segretezza i nomi dei campi non apparvero mai; venivano indicati con una lettera dell’alfabeto e i responsabili degli stessi assunsero vari pseudonimi.

La prassi operativa
I pazienti venivano prelevati dagli istituti e, una volta arrivati presso i centri di uccisione, i disabili venivano sottoposti alla spoliazione di abiti ed effetti personali, accuratamente raccolti per impinguare i fondi del Progetto T4.
Poi erano sottoposti a sommaria visita medica per controllare possibili denti d’oro e, infine, dopo essere stati marchiati con nastro adesivo, erano invitati a fare la doccia e condotti nelle camere a gas. Dopo l’esecuzione, il personale di servizio accatastava i cadaveri, li portava al forno crematorio e poi sistemava le ceneri in una fossa comune.
Quando il programma arrivò a pieno regime, nelle camere a gas, al posto dei 70 “soggetti” iniziali, venivano uccise 300 o 400 persone per volta.
Quando il 24 agosto 1941 Hitler, pressato dall’opinione pubblica interna e dalle Chiese, ordinò la sospensione delle esecuzioni, si calcolò che il Progetto T4 avesse già fatto più di 70mila vittime.
Gli storici di Norimberga però accertarono che questa cifra era enormemente inferiore ai dati reali visto che il calcolo si riferiva soprattutto alle morti nei campi di uccisione, escludendo tutte le numerosissime morti causate da iniezioni letali, prima delle soppressioni di massa e, soprattutto, dopo. Infatti, dopo l’interruzione delle uccisioni di massa nell’agosto ‘41, i disabili tedeschi continuavano a venire eliminati negli ospedali ricorrendo ai barbiturici e alle iniezioni letali. Gli infermieri renitenti erano costretti a praticarle sotto minaccia di morte.
Diversa sorte toccò ai disabili dei Paesi occupati dai nazisti che, dopo un breve periodo di internamento, venivano deportati nei campi di sterminio dove erano tra i primi ad essere soppressi. Se si è potuto avere una stima, anche se di molto inferiore alla realtà, degli uccisi tedeschi tra bambini disabili (oltre 5mila) e disabili adulti (oltre 70mila solo dal ‘39 al ‘41) attraverso il programma di eutanasia. E’ invece a tutt’oggi impossibile stabilire quante dei sei milioni di vittime accertate della Shoah fossero bambini e adulti disabili.

I disabili ebrei
I disabili ebrei furono inclusi nel programma di eutanasia fin dall’inizio, in un primo tempo solo in quanto disabili, poi anche in quanto ebrei. La persecuzione di massa nei confronti dei disabili ebrei avvenne a partire dal 15 aprile 1940 quando una circolare impose a tutti gli ospedali di dichiarare la presenza di pazienti ebrei al fine di riunirli in appositi centri di raccolta che altro non erano se non l’anticamera dei campi di sterminio.
Ma poiché le pressioni di parenti, associazioni e magistratura per aver notizie sulla sorte dei disabili internati si fecero forti, i vertici del T4 architettarono un ignobile inganno: la truffa di Cholm. Le direzioni degli ospedali di provenienza, a chiunque chiedesse notizie dei propri congiunti, rispondevano che erano stati trasferiti nell’unità di Cholm, vicino a Lublino, in Polonia, con tanto di indirizzo e casella postale. I cespiti dovuti per l’assistenza ospedaliera dovevano quindi essere versati a questa struttura.
Ma Cholm (come già il Comitato del Reich, per i bambini) era solo una casella postale fittizia. Un corriere provvedeva ad imbucare le lettere di risposta presso Lublino e recapitava poi i cespiti alle casse del T4, già arricchite dagli effetti personali e dai denti d’oro strappati alle vittime. Due o tre mesi dopo il trasferimento, la direzione di Cholm comunicava ai parenti l’avvenuto decesso. La lucrosa e criminale truffa durò poco più di un anno perché quando nell’agosto del 1941 il Reich decise la deportazione in massa degli ebrei tedeschi ed austriaci, anche i disabili ebrei seguirono la sorte di tutti nei campi di sterminio.
La “soluzione finale” ebraica è strettamente correlata alle modalità di sterminio dei disabili; i campi di concentramento furono pensati e strutturati sul modello dei centri di uccisione dei disabili. Gran parte del personale del T4, rimasto disoccupato dopo la chiusura dei centri di uccisione, venne impiegato nella “soluzione finale”.

I manicomi di Venezia
L’11 ottobre 1944, su ordine del comando tedesco e con la collaborazione della polizia repubblichina di Salò (i fascisti che non avevano accettato l’armistizio dell’ 8 settembre 1943), furono prelevati dagli ospedali psichiatrici veneziani di S. Clemente e di S. Servolo, rispettivamente, cinque e sei pazienti ebrei che poi furono trasportati sui carri bestiame al campo di concentramento di Birkenau.
Due studiosi italiani, Angelo Lollo e Lorenzo Torresini, attraverso la raccolta di tutti i documenti reperibili, hanno ricostruito la storia personale di queste persone le cui vicende sono emblematiche di come in seguito all’emanazione delle leggi razziali, anche in Italia il malato mentale, e non solo ebreo, fu sottoposto ad una sorta di eutanasia sociale. La lettura dei documenti dei due manicomi veneziani dimostra come ben pochi degli ebrei ricoverati a S. Servolo e S. Clemente presentassero vere e proprie patologie mentali: ulteriore riprova che le leggi razziali furono prima di tutto alienazione sociale ed individuale della persona umana.
Dopo la loro deportazione a Birkenau, degli undici disabili ebrei non si seppe più nulla. Ai direttori dei manicomi arrivarono alcune cartoline di saluto dai campi; questo del resto faceva parte di quel processo di dissimulazione della verità caratteristico del regime nazista.
Molto probabilmente furono uccisi al loro arrivo. I loro documenti bruciati, le loro vite cancellate.
Come tutti i disabili, secondo i nazisti, non erano mai vissuti.




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